Lunedì 25 febbraio 2019
presso la Camera dei Deputati vi sarà la presentazione di un
libro d’interviste e interventi di Marco Pannella a cura
di Marco Palazzolo.
Per l’occasione vi
proponiamo due contributi. Il primo – e più rilevante – è una lunga
conversazione che alla fine dello scorso millennio Pannella concesse a Gaetano
Quagliariello, pubblicata sulla rivista di cultura politica Ideazione.
Pannella allora veniva fuori
da una complicata vicenda di salute che aveva fatto temere per la sua sopravvivenza.
Il contributo risente positivamente del distacco dalla contingenza e, anche per
questo, non ha un mero interesse storico. Alcune intuizioni e slanci quasi
profetici sembrano infatti anticipare tratti essenziali della deriva che stiamo
vivendo. E non mancano neppure i motivi di stretta attualità, iniziando da una
penetrante analisi sugli effetti differenti che il referendum abrogativo e
quello propositivo possono avere sugli equilibri costituzionali e, più in
generale, sulle garanzie di libertà.
Il secondo contributo è più
d’occasione: “un ritratto parlamentare” di Gaetano Quagliariello,
inevitabilmente condizionato dalla ristrettezza dei tempi concessi in
aula in occasione della commemorazione ma che, forse, può essere apprezzato
proprio per la sua essenzialità.
da “Ideazione”, n. 1 / 1999
Intervista a Marco Pannella
“PRONTI PER LA RIVOLUZIONE
LIBERALE”
di Gaetano Quagliariello
Non è un mistero che in ogni
redazione di quotidiano vi sia un “coccodrillo” su Marco Pannella,
commissionato quando le sue condizioni di salute sembravano senza speranza.
Superata la crisi, Pannella ha mantenuto un inconsueto distacco dalla politica.
Solo chi ne ha frequentato l’abitazione prima e dopo, può averne una percezione
precisa. Il suo stile di vita in apparenza non è cambiato, ma la preoccupazione
“militante” non è quella di un tempo. Al di là di alcuni riflessi condizionati,
di “residui” lasciati da una ininterrotta stagione d’impegno, la decisione di
ritornare alla politica attiva non è stata ancora assunta.Il senso politico di
questa scelta è il vero filo rosso che ha legato la nostra conversazione. È
questa la prima intervista di Pannella dopo la guarigione e una delle poche che
il leader radicale abbia mai rilasciato nella sua carriera. Essa è anche il frutto
di un’improvvisazione e di un’urgenza. Nata dalla voglia di “tornare a
parlarsi” dopo alcuni anni, si è sviluppata nei ritagli di tempo di due persone
a modo loro disordinate. Avrebbe certamente avuto bisogno di crescere ancora un
po’ e, soprattutto, di sedimentarsi. Quando ha accettato di intraprendere
questa fatica comune, Pannella ha tenuto a cautelarsi: gli argomenti della
conversazione non avrebbero investito l’aspetto transnazionale dell’attività
radicale. Un aspetto per tanti versi predominante. I suoi occhi si riempiono di
orgoglio quando ricorda che il Pr, per la sua attività in favore dei tribunali
ad hoc sulla Jugoslavia e sul Ruanda, per la battaglia in favore del tribunale
penale internazionale, ha ottenuto dall’Onu il riconoscimento di “organismo non
governativo di prima categoria”. Solo in seguito lo stesso riconoscimento è
stato concesso anche all’Internazionale socialista ed a quella cattolica. Pur
con tutti questi limiti l’intervista è una prima messa a fuoco dei fondamenti,
anche teorici, della vicenda radicale nel corso della stagione repubblicana.
Soprattutto, tenta di mettere in collegamento questo retroterra con le scelte
strategiche dei radicali di oggi; con le ragioni che nei prossimi mesi
determineranno la loro politica, ancora una volta indissolubilmente legata a
una vicenda individuale per tanti versi unica. Ed è proprio dal tentativo di
comprendere gli sviluppi di questo percorso umano che ha preso le mosse il
nostro incontro.
Insomma, Marco, che farai
ora? Te la senti di tornare?
“Al posto dei miei compagni,
mi augurerei di sentirmi dire che per ora non intendo tornare all’impegno
politico radicale. Se tornassi solo per ragioni di mestiere, di abitudine, di
riflessi condizionati, a che cosa e a chi servirebbe mai un “Pannella” di tal
fatta? Tornerò, quindi, se e quando la mia presenza mi apparirà utile a un
obiettivo concreto, definito, urgente e possibile, di adeguata ed “estrema”
ambizione civile e politica: quello di realizzare in tempi politici la
rivoluzione liberale italiana, la riforma della quale scriveva Benedetto Croce.
Quello di rovesciare questo regime nel quale il sovrano è tornato ad essere
legibus solutus, negando lo Stato di diritto come nemmeno i regimi fascisti e
comunisti avevano fatto. Da qualche anno mi accade di pensare che questo sia
possibile: ma non basta per farne un obiettivo”.
Evochi scenari
pre-rivoluzionari che non sembrano appartenere a questa fine di secolo. E
“rivoluzione liberale” è espressione ambigua, che in passato è stata il veicolo
dei peggiori illiberalismi. Vogliamo specificare meglio il contesto sociale e
politico al quale ti riferisci?
”Recuperiamo l’analisi non
gramsciana ma salveminiana del blocco sociale dominante. Questo blocco sociale
si presenta identico a se stesso per ottant’anni: ha dominati il fascismo dal
’25 al ’43, e l’antifascismo dal ’47 ad oggi. Esso comprende il mondo
industriale e finanziario guidato dalla Fiat e dai suoi uomini, le aristocrazie
operaie “sindacalizzate”, il potere burocratico, la borghesia parassitaria del
Mezzogiorno. Poco è cambiato da allora. Se tentassimo un aggiornamento
dell’analisi salveminiana, dovremmo oggi constatare che non ci sono più i
latifondisti, ma resta attuale il riferimento al potere industriale, alla
politica romana che per le sue pratiche concertative utilizza la burocrazia e
l’amministrazione pubblica, ai sindacati, a quel tanto di Chiesa che resta
(anche se il Vescovo è di destra, sta con l’Ulivo perché di lì arrivano tutti i
soldi pubblici). In fondo, Luigi De Marchi non sbaglia quando parla di “ceto
burocratico” -possiamo anche definirlo classe burocratica – sostenendo che
nelle nuove fratture sociali Cipolletta e Cofferati si collocano dalla stessa
parte. Questo blocco sociale è diventato struttura di potere, ha prodotto
corporativismo, Stato etico, e l’anti-cittadino. Oggi sembra essere giunto al
suo apogeo, ma come nella Francia dei primissimi anni di Luigi XVI. Ciò che
caratterizza socialmente l’attuale fase storica della società italiana è che
grandi masse, complessivamente fortemente maggioritarie, si sentono e si
vogliono estranee e nemiche dello Stato partitocratico e della cultura della
quale il blocco sociale dominante è espressione. Le similitudini con la
situazione prerivoluzionaria francese degli anni intorno al 1780 sono a volte
impressionanti. In Italia oggi vi è qualcosa di più di un potenziale Terzo
Stato, che si oppone a un regime mostruosamente potente e tentacolare,
espressione organicistica, chiusa, quasi perfetta delle tradizioni
antiliberali: si direbbe in Francia “antirepubblicane”. Tutti i partiti –
quelli di maggioranza così come quelli di opposizione – sembrano chiusi,
compressi e rissosi, in un ghetto che comprende al massimo un quarto dei
cittadini italiani. Il regime appare come un colosso con i piedi d’argilla.
Poggia comunque sulle mine o sabbie mobili di un popolo le cui esigenze, le
attese, i sentimenti e i risentimenti si volgono sempre più apertamente contro
il regime. Si tratta, perciò, di porsi alla testa, guidare e armare la rivolta
sociale che per molti versi già incombe. O lo facciamo noi, da radicali
liberali, edificando sulle macerie di questo regime un’alternativa di tipo
anglosassone, o lo faranno altri radicali: neo-comunisti, neo-fascisti e
neo-clericali, destinati a ritrovarsi uniti per imporre tutti insieme nuovi
assetti di violenza, di ingiustizia, di intolleranza, di miseria economica e
civile. È insomma necessario, come ha magistralmente spiegato Sergio Romano
proprio su Ideazione, che i liberali e i moderati cessino di considerare se stessi
come molluschi invertebrati, per assicurare allo scontro politico e sociale
l’intransigenza senza la quale nessuna grande riforma -di se stessi e del Paese
– e nessun buon governo sono immaginabili”.
Categorie “emergenti”, come
quella dei magistrati, in che rapporto vengono a trovarsi con il blocco sociale
che tu tratteggi?
”La loro integrazione nel
regime è scontata, ne sono elemento costitutivo tra i più potenti e pericolosi.
Il cosiddetto “partito dei magistrati” gli ha concesso il massimo dei benefici
economici, finanziari e di carriera. Contro di loro servirebbe un po’ di sana
lotta di classe… Hanno stipendi fra i più alti del mondo e condizioni di
carriera scandalose. Perfino Scalfaro, per una volta, è riuscito ad avere una
battuta felice quando ha detto che un giovane che entra in carriera a 25 anni
potrebbe già scrivere sui suoi futuri biglietti da visita “futuro presidente di
Corte di Cassazione”. Ma, se entriamo nel mondo delle corporazioni, dobbiamo
accennare anche alla casta militare con i suoi più di 1000 generali al posto
dei 30 realmente necessari; alla burocrazia, al potere corporativo di alcune
categorie di pensionati (che in gran parte coincide con quello dei sindacati).
Del “blocco sociale” dominante fanno poi parte tanti, e grandi, sepolcri
imbiancati. Come quella Banca d’Italia che è stata la prima responsabile, per
decenni, dell’uso massicciamente partitocratico e mafioso del credito, oltre
che del mostruoso indebitamento che è stato necessario per assicurare il potere
assistenziale e clientelare, corporativista e inflazionista del regime
partitocratico della fase precedente a quella che stiamo oggi vivendo. Dobbiamo
poi parlare della disponibilità da parte di questo blocco degli strumenti del
potere moderno: Mussolini aveva a disposizione solo la radio. Questi
controllano tutto quanto consente il condizionamento, garantendosi oppositori
complici ideologicamente e culturalmente. Questo Polo gli va benissimo, perché
sembra aver abbandonato l’idea della grande riforma istituzionale americana
antipartitocratica e sterilizza l’opposizione sociale“.
Siamo al “regime”: un
termine che ritorna nelle tue analisi da oltre vent’anni. Ma questa categoria
può ancora essere riproposta immutata, nonostante tutta l’acqua scorsa sotto i
ponti della politica italiana?
”Io ho sempre parlato di
“regime” in termine tecnico, come categoria neutra e avaloriale. Ho sostenuto
che nella storia del XX secolo si sono avuti i regimi liberaldemocratici, i
regimi totalitari e la partitocrazia come regime terzo (che non vuol dire
“regime intermedio”). Ma quest’ultima non ha fatto i conti, così come il
totalitarismo, con la democrazia che i “totalitari” anatemizzavano come vecchia
quando ancora era solo un vagito nella storia. La partitocrazia italiana si
confronta non più con la democrazia quanto con il passaggio dalle monarchie
assolute alle monarchie costituzionali. È un nuovo sovrano tornato al di sopra
delle leggi. In questo passaggio il potere che è soggetto di diritto diviene
soggetto al diritto; il re che detta legge ed è la legge ne diventa invece il
supremo garante e servitore, perde l’investitura dall’alto. La cultura
partitocratica fa i conti con questa conquista dell’umanità e ripropone una
nozione dell’organizzazione dello Stato per la quale “chi è al potere detta
legge ed è la legge”. Inventa la nozione di “legge materiale” che non è mai
uguale a se stessa, e la novellistica è costante perché di volta in volta la
legge serve a superare mille difficoltà diverse. Non è un caso che la
“partitocrazia” si affermi in un Paese nel quale la Chiesa è cattolica e non
protestante, il movimento operaio comunista e non socialista. Qui essa trova
l’humus migliore per ridar vita ad una concezione dello Stato e del potere nel
quale la legge non è quella dello Stato di diritto, né la legge uguale per il
primo cittadino e per l’ultimo. Questa è la sola spiegazione nobilitante della
partitocrazia, in questi quarant’anni non ne ho sentito altre. Di fronte a
questa realtà, i vari Bobbio, Galante Garrone, eccetera, sembrano i più ciechi,
sembrano aver paura di aprire gli occhi. Perché questa caratteristica
dell’assenza della legge come legge di tutti, alla quale nessuno è superiore ma
che anzi vincola ancora di più il potere, è stata accettata e coperta da ogni
soggetto politico. Qualche volta in malafede, più spesso in buona fede. Craxi
nel suo discorso-confessione ha detto che le leggi erano state violate da
tutti. Dimenticava di far riferimento a una minoranza che si è sempre rifiutata
di accettare questa pratica: quella radicale”.
Nella tue battaglie la
rivendicazione dello Stato di diritto si è sovente tradotta nella richiesta di
attuazione della Costituzione e nella correlata denuncia della sua violazione.
Rileggendo i tuoi scritti, però, sembra che tu oltrepassi questa impostazione
“metodologica”, fornendo a volte un giudizio sostanzialmente positivo sul
merito del dettato costituzionale. Questa posizione, però, implicherebbe
un’accettazione della prima parte della Costituzione (naturalmente prodotta
dalla confluenza della cultura comunista e di quella cattolico-sociale) e un
giudizio sostanzialmente positivo sul compromesso raggiunto nella seconda
parte: una soluzione istituzionale che difficilmente avrebbe potuto affermarsi
senza comportare la “materiale” centralità dei partiti.
”La Costituzione attuale è
infelice per quanto riguarda l’aspetto istituzionale ma è categorica nel
fissare diritti e libertà. In questo è stata subito negata e tradita. Ho sempre
messo in evidenza un altro aspetto del processo costituente. In quel tempo storico
così particolare, dopo il sangue della Resistenza e la guerra civile, il
costituente ha una visione profetica: il referendum deliberativo, propositivo,
nel mondo della comunicazione che cominciava a nascere esponeva al rischio del
potere plebiscitario e diveniva forza aggiunta per chi ha il potere. Cioè il
referendum classico da arma della gente contro il potere può trasformarsi in
uno strumento di chi ha il potere per superare un blocco o una ostruzione del
potere legislativo. Una cosa è certa: questa intuizione di dare al popolo
italiano due schede, una per eleggere il proprio rappresentante e una per
annullare le leggi che non vanno (tenendo presente che le leggi sono
espressione dei poteri legali ma anche dei “poteri forti”), avrebbe potuto determinare
una nuova formula di democrazia partecipativa che innova i tradizionali canoni
della rappresentanza. Il referendum abrogativo è un’intuizione favolosa. Solo
perché il liberale odierno è il prodotto del suo tempo, non si è mai accorto
che nella scelta del costituente italiano di inserire il referendum abrogativo
vi è una punta da anni 2000, profetica”.
Questa la devi
sostanzialmente a un radicale, Meuccio Ruini…
”A Ruini debbo anche altre
cose, come la disponibilità a subìre il linciaggio del ’53 per avere, da
presidente del Senato, difeso e condotto in porto la legge che prevedeva il
premio di maggioranza. Ma dal momento nel quale lo Stato si dà la sua
Costituzione esso cade nell’illegalità: non dà applicazione al referendum, non
attua le regioni come nuovo assetto anticentralista dello Stato, non crea a
lungo la Corte Costituzionale come contrappeso. Sceglie la continuità invece di
accogliere la tesi azionista della soluzione di continuità: “rompere” solo per
un istante la continuità statuale per inaugurare una nuova legalità. Per
decenni lo Stato italiano si è posto contro la Costituzione, contro la legge”.
Hai parlato spesso di
illegalità dello Stato. E in alcuni casi mi sembra tu ti sia riferito non solo
alla violazione dello Stato di diritto. A volte, in certe tue analisi del
passato, è possibile avvertire una certa assonanza tra le tue tesi e quelle di
una storiografia d’impronta prevalentemente marxista, riprese tra l’altro da
alcuni settori della magistratura, che si condensano nella formula del “doppio
Stato”. In Italia sarebbe esistito una sorta di Stato parallelo, invisibile e
irresponsabile, che per bloccare il processo di emancipazione del Paese è
giunto fino ad utilizzare l’arma delle stragi. La differenza sostanziale tra
queste tesi e le tue – mi sembra di capire – è che tu ritieni che almeno da un
certo momento in poi i comunisti abbiano preso parte attiva a questo “doppio
livello” e che esso sia diventato uno dei pilastri strutturali del patto
consociativo. Non ritieni che sia giunta l’ora di riconoscere una volta per
tutte che in Italia nel dopoguerra è nata una democrazia imperfetta, ma anche
l’unica democrazia allora possibile?
”Non ci sono mai stati due
Stati, ma un solo Stato che è letteralmente “fuori legge”. In base al diritto
internazionale basta comprovare che si esercita la sovranità per avere il
riconoscimento, anche se mancano i titoli di legittimità; questo Stato
italiano, dunque, non può non essere riconosciuto perché ha esercitato tutte le
manifestazioni della sovranità, ma contro la legge. Te lo dimostro, restando al
tema del referendum. Quando proponemmo l’abolizione dei Codici Rocco non
eravamo dei pazzi. Sapevamo che da sette anni erano bloccati in un cassetto i
progetti di riforma. Così come, quando ponemmo il problema del diritto di
famiglia, facemmo saltare un ostruzionismo che durava da nove anni. Anche
grazie a un nostro sciopero della fame si portò a compimento il voto ai
diciottenni e il diritto di famiglia. Queste leggi, delle quali noi chiedevamo
l’abrogazione, non dovevano cadere. Erano tutti d’accordo perché la cultura
politica di questo Paese è comune. Il discorso è sostanzialmente questo: se noi
comunisti andiamo al potere o se noi democristiani rimaniamo al potere, non ci
possiamo permettere il lusso di abolire il Codice Rocco. Bene, sulla base di
questo ragionamento la Corte Costituzionale ben presto proclama il “principio
di ragionevolezza”, affermando in sostanza: “È una follia, i codici non si
possono abolire”. A tal proposito sarebbe interessante riparlarne con Livio
Paladin che mi ha riferito allora di essere stato d’accordo con noi. Mi ha
detto testualmente che quando la Corte Costituzionale inventò “il decalogo” e
con la Corte di Cassazione fu costretta a inventarsi il “principio di
ragionevolezza”, lui capì che le nostre accuse erano intellettualmente
plausibili. Poi viene fuori che le leggi non si possono abolire. Poi che i
referendum devono essere “omogenei”. Quindi, in base all’omogeneità dei
quesiti, viene preclusa la possibilità di sottoporre a referendum le leggi che
in Italia sono spesso leggi omnibus. S’instaura così, in modo violento, la sola
possibilità di fare referendum manipolativi. E anche in questo ambito siamo
allora diventati maestri, ma essendo teoricamente contrari a questa pratica che
ci hanno imposto. Ti chiedo: tutto questo non è forse un golpe? Inventare il
principio di ragionevolezza come principio centrale rispetto al dettato
costituzionale. Un popolo al quale proponi una cosa folle, ti sanziona con l’1%
se fosse veramente folle e irragionevole. Invece, si crea la casta dei
guardiani della ragionevolezza popolare. Il rischio che paventavano è che
concedere il referendum secondo Costituzione avrebbe messo il popolo nelle
condizioni di votare qualsiasi follia. Bisognava mettere il popolo sotto
tutela, così come Pio IX avrebbe voluto che un re scomunicato non concedesse
l’istruzione pubblica, perché si rischiava di mettere il popolo nelle mani del
Diavolo! Oggi si sono tutti dimenticati che questa non è una storia minore. Su
quei referendum noi eravamo egemoni: tutti erano con noi, da Scalfari a Lelio
Basso a Riccardo Lombardi. In quell’occasione il “nobile” presidente della
Camera dei deputati, Pietro Ingrao, in combutta con la Corte che aveva
sottratto dalle nostre mani la scheda che era stata poco prima concessa alla
Chiesa, fece strame delle tradizioni parlamentari. Piccolo dettaglio di
cronaca: Ingrao mi mandò a chiamare una mattina, alle 4, quando avevamo
bloccato la Camera con l’ostruzionismo, e mi disse “Se tu lasci passare la
Reale-bis e l’aborto, io ti garantisco di salvarti gli altri referendum”. Capì
che ero scandalizzato – in realtà ero anche un po’ sconvolto – e mi disse che,
per essere ancora più chiari, sarebbe stato lui a proporre al suo partito, se
il referendum non fosse stato bloccato, di prendere posizione in difesa della
“legge Reale”. Nei confronti della “legge Reale” i comunisti giocarono una
partita doppia: andavano da De Martino in via del Corso a dirgli che avrebbero
fatto l’opposizione ma volevano garanzie che i socialisti non avrebbero
mollato. In quel momento il potere stava per essere travolto. Allora
constatavamo che esistevano solo due forze in Italia: i comunisti e i radicali.
Tutti gli altri avevano “posizioni” ma non lottavano. Sulla Reale, sul finanziamento
pubblico, sul decreto Cossiga, quelli che “ressero” contro di noi furono solo i
comunisti. E per fermarci hanno dovuto realizzare dei veri e propri golpe
legali“.
Non si riuscì allora, e
ammetti tu stesso che i rapporti di forza ti erano molto più favorevoli. Perché
dovresti riuscirci oggi che la situazione, almeno in apparenza, è molto più
chiusa e stabilizzata? Insomma, dove sono i soggetti sociali e dove risiede la
forza politica della tua “rivoluzione liberale”?
”Il fatto nuovo nella storia
d’Italia è che per una serie di fatti, certo transeunti ma che durano già da 10
anni, il Paese è oggi pronto a fare la sua rivoluzione liberale. Non che il
Paese ne sia cosciente o che voglia la rivoluzione, ma esiste una maggioranza
assoluta di ribelli, di scontrosi, di stanchi che possono “fare lega” e
diventare un soggetto politico creativo e alternativo, di nuova legge e di
nuova legalità. Per tenere in piedi il blocco sociale egemone non basta più la
corruzione o la cooptazione, non basta più la distruzione sistematica dei
princìpi della vita democratica e costituzionale. Questo “regime terzo” è
arrivato alla resa dei conti, sta raschiando il fondo del barile. Se ci fosse
un’azione decisa, a salvarlo non basterebbe più neanche l’arma politica del
linciaggio che contra legem la magistratura italiana ha consentito alla
sinistra, e in particolare al Partito comunista, di utilizzare per 40 anni
(contro Ruini, contro Piccioni, contro Berlusconi, eccetera) come arma di lotta
politica. Si sono così disarmati i codici italiani della possibilità di
perseguire i reati contro la personalità e di difendere la reputazione e su
questo terreno si è saldata l’alleanza tra il partito dei magistrati e il
partito degli editori. Queste sono in Italia le due grandi corporazioni che,
per ora, hanno vinto. E che reggono il regime. In questa situazione storica,
però, poco di più può giungerci dalla “politica politicante” al centro, a
destra, a sinistra. Lo Stato e le istituzioni sono in putrefazione. La
giustizia, la scuola, il mercato, la sanità, l’ambiente sono funzioni
degradate, non di rado repellenti. Il popolo, la gente, gli individui sentono
che lavorare fino a oltre la metà del mese per lo Stato è intollerabile,
ingiusto, sbagliato. Le oligarchie del denaro e dell’industria, in alleanza con
le oligarchie partitiche ed elettive, sindacali, amministrative, e le
corporazioni dei giudici, della stampa, dei mestieri intellettuali, degli
ordini professionali, costituiscono un agglomerato di potere, un “disordine
costituito” che sta portando l’Italia a essere sempre più “mediterranea”,
sempre meno “occidentale” ed “europea”. A tutto ciò si contrappongono i sei
milioni di partite Iva – cioè gli interessi oggettivi dei piccoli nuovi
imprenditori – soffocati dalla burocrazia confindustriale; i lavoratori
autonomi ed i giovani in cerca di prima occupazione, vessati dalla politica
sindacale. Se la Confindustria o il Polo facessero propri 4 o 5 referendum
liberisti, l’impopolarità “di massa” del sindacato diventerebbe palese. Perché
già in questa situazione si è rovesciato il tradizionale rapporto di forze:
oggi gli unici che possono contare su forze di massa sono le proposte liberali;
la Confindustria, consapevole di questo, ha paura che il blocco sociale
tradizionale possa prima o poi saltare. La concertazione è intoccabile: siamo
giunti a vedere l’Avvocato, con a fianco D’Alema che acconsente, affermare
esplicitamente che è preferibile che a governare sia la sinistra perché
controlla di più i contrasti sociali. Non è difficile prevedere che questo
potere arriverà con dieci anni di ritardo a fare le riforme decisive, come
quella delle pensioni. Questi faranno nel 2005 ciò che Giuliano Amato stava
facendo nel 1992. Nel frattempo, l’Italia avrà perso l’autobus e si sarà
impoverita”.
Ma si può rilanciare una
“sfida liberista” nel momento nel quale questa politica indietreggia in tutta
l’Europa continentale?
”Sta di fatto che se oggi in
Italia si alzasse un imprenditore degno di questa parola, dichiarasse guerra
alle bordature corporative ed avesse il coraggio di annunziare: io voglio la
lotta sociale, i sindacati e la sinistra sarebbero già sconfitti. Oggi la lotta
sociale possono farla innanzitutto i liberisti. C’è una cosa da chiarire una
volta per tutte: quelli che sono neo-keynesiani e anti-liberisti, ritengono che
il liberista sia per la legge della giungla ed a questa impenetrabile giungla
loro contrappongono l’economia a due settori. Questa, storicamente, è stata e
resta una soluzione improbabile, perdente. Non può funzionare se nel settore
pubblico non ci sono motivi di sana imprenditorialità, e non possono esserci
perché i suoi valori sono altro rispetto a quelli del rischio, del profitto,
del fallimento (in Italia è stato abolito perfino il diritto al fallimento). In
realtà, la vera contrapposizione al cosiddetto “liberismo selvaggio” è quella
che può offrire lo Stato regolatore che non ha nemmeno l’illusione lontana di
poter essere titolare di un settore dell’economia. Al mercato, con tutti i suoi
rischi, viene dato il resto. L’unica reale esigenza vitale (nel vero senso
della parola, perché al di fuori di essa non c’è vita), che viene prima anche
dell’ansia di giustizia, è quella del mercato contro gli oligopoli“.
Evochi la rivoluzione
possibile e scenari ultimativi. Ti riferisci al ruolo di minoranze attive che
dovrebbero creare un soggetto politico nuovo e mostrare al Paese la via del
cambiamento che esso non sa scorgere. Tutto ciò non è forse in contrasto con la
qualifica di “riformatore” alla quale hai sempre tenuto?
”Ho trovato in Bergson, che
ho ripreso tra le mani l’altro giorno, una intuizione importante: la “riforma”
si può fare se si accetta l’idea della “forma” nel diritto e nella politica.
Che m’importa quale sarà la riforma di D’Alema se so che non crede nella forma?
Se non si rispetta la Costituzione che si ha, perché si dovrebbe rispettare la
Costituzione che verrà? Noi dobbiamo fare la rivoluzione americana o quella del
1789 e non quella del 1793 o dell’ottobre 1917. Dobbiamo guadagnare innanzi
tutto la certezza del diritto. Questa è una battaglia di civiltà profonda. È la
rivoluzione illuminista e liberale che pone il diritto come fondamento della
possibilità del vivere: un diritto che impone al potere di servirlo esattamente
come al semplice cittadino. La negazione di ciò rappresenta la vera ideologia e
cultura del “regime terzo”, che è stata distillata in un modo spaventoso. Il
fatto che stia scomparendo dalle cose visibili la filosofia del diritto è il
segno più evidente della sua potenziale pericolosità per questo regime. Sul
piano storico, poi, don Benedetto continua a offrirci una riflessione che è
giusta: questo è un Paese che ha avuto solo controriforme e mai una riforma.
Anche se poi sul Risorgimento faceva le sue specificazioni”.
Resta un dato di fatto, che
per te rappresenta anche un problema politico: i soggetti sociali sui quali
conti per la “rivoluzione liberale” sono gli stessi che riempiono le piazze
dell’opposizione. Non si pone per te l’esigenza di trovare un rapporto con le
forze del Polo?
”Certo, in piazza dal Polo
ci vanno un po’ di persone che non ne possono più, ma oggi riempire le piazze
con la complicità dei mass media di regime è un gioco da ragazzi. Ma mi
sentirei di affermare che la cosiddetta “classe dirigente” italiana non contiene
nuclei significativamente interessati alla “rivoluzione liberale”; in un modo o
nell’altro maggioranza e opposizione sono interne al regime. Per creare un
nuovo blocco sociale da uno sterminato rigetto della politica, del potere e
della cultura di potere ci vuole una grande creatività e, soprattutto, devi
avere la possibilità di selezionare dei punti di forza sui quali dare tempo al
Paese di riunirsi, di fondersi come una lega. Il Polo sta scegliendo sempre più
esigenze ultra-minoritarie. I suoi leaders non capiscono che bisogna
oltrepassare la dimensione della politica e della cultura “ufficiale”. Il
divorzio e l’aborto sono venuti fuori contro tutta la cultura ufficiale: io
allora non avevo Il Mondo, né L’Espresso, avevo Abc e un Abc con 90mila copie di
vendita che portammo fino a 1 milione di copie. Aborto e divorzio s’imposero
solo quando divennero cultura “popolare”: quando tutti ebbero qualcosa da dire
su quei temi, in famiglia, sull’autobus, in sezione. Oggi dire “eleggiamo il
presidente all’americana, chiudiamo le baracche partitocratiche e creiamo due
partiti” significa popolarizzare una elaborazione culturale più complessa. La
frattura nel Paese non puoi certo crearla tra i due turni di coalizione o il
turno unico, eccetera, di cui capisce solo qualche politico, e alla gente non
importa niente. Un’opposizione che ha la chance di poter essere in sintonia con
l’80% dei cittadini e decide di non utilizzarla vuol dire che prende in
considerazione i sondaggi solo quando sono insignificanti o errati. Mi domando:
non è sintomo di minoritarismo e di analfabetismo politico considerare centrale
il problema cattolico, quando Ruini al massimo può spostare il 5% del voto
cattolico, cioè l’1 o il 2% dell’elettorato italiano? Quando in una situazione
di monopolio comunicativo quotidiano concesso a quel se non amatissimo comunque
rispettatissimo Papa che parla sempre di divorzio e di aborto, l’80% degli
italiani continua a dichiarare che oggi voterebbe comunque per l’aborto e il
90% per il divorzio? Oggi dunque, come vent’anni fa, ci ritroviamo
all’opposizione del governo e all’opposizione dell’opposizione. Perché c’è
un’opposizione di regime, il che non vuol dire che non possa essere
un’opposizione di buona fede, ma solo che essa condivide gli interessi e le
culture di regime”.
L’alleanza elettorale con il
Polo è dunque solo acqua passata?
”La ripresa di un rapporto
può giungere solo dalla spietata franchezza della critica e dalla
riconsiderazione degli errori presenti e passati. E su alcuni aspetti del
passato bisogna essere chiari. Quando Berlusconi formò il suo governo, mi
chiamò alle 2 di notte per dirmi che l’unica cosa che poteva proporci era un
ministero minore per “uno dei miei”. La destra, della quale eravamo se non
alleati almeno amici, ci ha offerto meno di quello che è stato disposto a darci
D’Alema con l’offerta del ministero a Emma Bonino. Dopo di che, io dissi a
Berlusconi di presentarsi in Parlamento con una lista di ministri non
contrattata ma che poteva assicurare immagine e competenza. Di sfidare così la
Lega ma, soprattutto, la logica partitocratica della coalizione. Allora parlavo
con Scalfaro e mi dissi certo del fatto che, se Berlusconi fosse stato subito
sfiduciato dal Parlamento, si sarebbe tornati alle urne accorpando le elezioni
legislative alle Europee. E si sarebbe preso il 70%. Dall’elezione della
Pivetti in poi, posso ricostruire settimana per settimana gli errori del Polo
previsti e denunciati senza che Berlusconi o altri prestassero ascolto”.
Qual è il tuo giudizio e
quali i vostri rapporti con i “nuovi referendari”?
“Avevamo presentato già da
un anno il quesito referendario cavalcato oggi da Segni, Di Pietro, Fini,
Veltroni, e tanti altri. Ma come “il male minore”: esso aveva dalla sua solo il
merito di essere “auto-applicativo”, cioè di poter consentire lo svolgimento
delle elezioni con la legge quale risulterebbe dall’eventuale applicazione del
risultato referendario. Ma questi “nuovi referendari” vanificano anche questo
vantaggio. Essi degradano, quasi tutti, il referendum a mero “stimolo” per il
Parlamento. Di Pietro, addirittura, ha contestualmente raccolto le firme per
una legge elettorale diversa da quella risultante dall’eventuale approvazione
del referendum. Insomma, vi sono tutte le condizioni per tornare al 1993 e
all’impostazione che rese possibile il tradimento del referendum di allora e la
legge Mattarella. Per noi, questa concezione del referendum è semplicemente
anti-referendaria. Ci sarebbe, poi, un ostacolo insormontabile in uno Stato di
diritto. La Corte Costituzionale ha, lo scorso anno, decretato che i referendum
non possono più essere manipolativi (malgrado questa del referendum
manipolativo sia stata un’invenzione della stessa Corte). E questo quesito è
certissimamente manipolativo. Ma non importa: una Corte di regime come questa,
di cortigiani del nuovo sovrano, ubbidirà, si smentirà se avrà più paura di
bocciarlo che di approvarlo. Se il referendum passerà, infine, è bene che si
sappia che un quarto degli elettori italiani si troveranno rappresentati sia
dal parlamentare che hanno eletto, sia da quello che hanno sonoramente
bocciato. Non è l’ideale. Per questi motivi ci siamo chiamati fuori. Voteremo
“sì”, ma senza fiducia nel seguito. Quanto a quelli che continuano a cianciare
indisturbati di Costituente, tanto varrebbe che dicessero apertamente di volere
il ritorno alla proporzionale e una “nuova” Costituzione ben peggiore, ancor
più frutto di un’ammucchiata, dell’attuale”.
Tra i nuovi soggetti
politici, si fa un gran parlare del cosiddetto “partito dei sindaci”: un
potenziale concorrente o un possibile alleato?
”Questa vicenda dei sindaci
ha dell’incredibile, e qualifica non tanto i sindaci stessi quanto le maggiori
forze politiche di questo regime. Che questi sindaci, giunti alla metà del loro
secondo mandato, non rinnovabile, tentino di inventare ragioni politiche e
magari anche ideali per il proseguimento della loro carriera e per inserirsi
(ora o mai più) ai massimi livelli dell’oligarchia italiana, pur del tutto
privi di ragioni, obiettivi, programmi e progetti comuni, è comprensibile.
Anche se non è propriamente ammirabile. Ma che il Parlamento e i partiti,
riformando la legge elettorale europea, non facciano valere la non
candidabilità e l’incompatibilità tra l’incarico di sindaco e quello di
deputato europeo, mostra il grado di impreveggenza e di irresponsabilità dei
nuovi governanti oltre che – almeno finora – della nuova opposizione. Mostra
quanto ci si infischi del buon costume civile, fino al limite del masochismo.
Se i sindaci potranno fare le loro liste europee, con Tonino Di Pietro e chissà
chi altro, sarà la fine non soltanto dell’Ulivo (e non parliamo del Polo!) ma
anche, probabilmente, dei vertici dei Ds e dei Verdi, per i quali certo non
prenderò il lutto. Ma al peggio, diciamolo, non c’è mai fine. C’è ancora tempo,
se pure pochissimo, per evitare questa ennesima grave disfunzione delle
istituzioni. Staremo a vedere se, almeno, l’istinto di conservazione dei
partiti di regime, se non l’amore per la legge e la democrazia, riuscirà in
extremis a farsi valere”.
Mi sembra che tu stia
evocando la prospettiva di una nuova marcia solitaria nel deserto. Ma ammesso
che vi sia la possibilità di provocare un’ulteriore “rottura” nella vicenda
politica italiana, non si rischia di giungervi di nuovo impreparati? Dov’è una
classe politica alternativa? Dov’è un programma riformatore?
”Nella pittura, nella
scultura, nella poesia il nuovo è per definizione il salto nel buio. Il nuovo
comporta l’esercizio del rischio d’impresa, che esiste in politica e non solo
sul mercato. Poiché il nuovo è sempre differente da ciò che soggettivamente hai
immaginato, il rischio del nuovo esiste e non può essere soppresso. Anzi, è
proprio su questo rischio che occorre investire. Ma i nostri veri problemi sono
altri. Sfido chiunque ad affermare che i nostri problemi non siano quelli di
capire come si fa a vincere partendo dalla clandestinità a cui siamo costretti.
Ti sei chiesto perché Storace abbia affermato che è in atto un genocidio
culturale dei radicali e che occorre interromperlo ad ogni costo? La nostra
politica è tabù e deve restare tabù. Non si può mandare in televisione chi dice
che sul finanziamento pubblico sono dei truffatori. Non puoi consentirti di
mandare in video chi dice a Scalfaro: tu, secondo la Costituzione, sei un
traditore e un usurpatore. Non puoi permettertelo. Affermare ciò non è fare del
vittimismo. È il tentativo di comprendere perché hanno bisogno che quanto
proviene dai radicali debba restare tabù. Al tempo del divorzio, io dicevo che,
se il Paese avesse iniziato a discutere il problema, si sarebbe vinto. Oggi
vale la stessa cosa. E poi, nonostante la censura più assoluta, bisogna dirlo
una volta per tutte: nel Paese la “cosa” radicale esiste. Ha una sua sostanza
sociologica, strutturale, economica. Di fronte al fallimento della forma
“partito di massa” e al tramonto del “partito giacobino”, rappresenta l’unico
modello di organizzazione militante che conserva una sua attualità. È la forma
organizzata dell’impegno civile di una minoranza; ma di un impegno che assume
forme “empiriche”, non ideologiche e non esclusive. Negli anni ’60 questa
minoranza comprendeva non più di 30 “quadri” in tutta Italia; oggi saremo 150.
Ma di questi, almeno 50 posseggono il know-how per essere una classe dirigente
di ricambio, per assumere ed esercitare positivamente funzioni di ministro o di
primaria responsabilità istituzionale. Oggi esiste una radio che ha scritto una
pagina nella storia dell’informazione di questo Paese, e la cui valutazione
commerciale ammonta a diverse decine di miliardi. Vi è un Centro di produzione
che, a partire dall’audiovisivo, è l’unica memoria orale della storia italiana
dell’ultimo ventennio. Il nostro Centro d’ascolto è la più importante “baracca”
europea nel campo della valutazione del funzionamento e dell’impatto politico
dell’informazione pubblica. Con Agorà (il server più antico e tecnologicamente
ritenuto ancora oggi tra i più validi) abbiamo per primi intuito l’importanza
che la comunicazione in rete avrebbe assunto, anche per le istituzioni e la
politica. Non devi scordare che abbiamo già scritto nella storia della
Repubblica italiana un Cahier de doleance. Dei 50 referendum presentati, 30
sono la trascrizione e la traduzione delle riunioni di questi “ignoranti” di
piccoli imprenditori del Triveneto, abruzzesi e pugliesi; delle loro esigenze
primarie: il non poter usare il lavoro temporaneo, il non poter assumere,
eccetera. Tutte cose anche più determinanti delle tasse. Quale altro soggetto
organizzato sarebbe stato in grado di raccogliere 12 milioni di firme
autenticate di elettori italiani o – come nel 1993 – di “produrre” in 2 mesi
40mila iscritti con circa 14 miliardi di introito? Chi in Italia è al corrente
che il nostro Call center produce quotidianamente, per tutta la durata
dell’anno, poco meno di 10 milioni d’iscrizioni o contributi? E quale altra
forza sarebbe stata in grado di organizzare, per oltre 4 mesi, una campagna di
sostegno ai diritti di Radio radicale in grado di coinvolgere circa 12.355
cittadini in uno sciopero della fame collettivo? Allora, quando si parla di
“liberali italiani”, bisogna riconoscere che, anche tenendo conto della storia
del Pli, la “cosa” radicale rappresenta l’unica struttura in grado d’incidere
realmente nella vita del Paese, a fronte di un folto manipolo di “liberali
ufficiali” che rappresentano esclusivamente se stessi o poche decine di
militanti, nel territorio di elezione di questi notabili. Ribadisco: nella
durata, nella continuità e nei momenti fondamentali della lotta politica
nazionale non vi sono stati che i comunisti e i radicali. Ma oggi questa realtà
tanto importante quanto “clandestina” per la politica ufficiale non basta ad
assicurare l’inevitabile compito di assicurare il passaggio da questo regime ad
un’alternativa di “nuovo blocco sociale” e di riforma (o rivoluzione) liberale
dello Stato e della società. Manca ed è da conquistare la certezza del
collegamento fra la rivolta sociale del Terzo Stato, che coinvolge oltre i 3/4
delle “masse”, e una struttura in grado di assicurarne l’espressione e la guida
politica. Cioè il detonatore di questa potenziale miscela esplosiva. Fin quando
questo non sarà configurabile, non comprendo a che cosa il mio “rientro in
politica” possa servire”.
Resoconto stenografico della
seduta n. 633 del 25/05/2016, intervento del Sen. Gaetano Quagliariello in
ricordo di Marco Pannella.
Signor Presidente, colleghi
senatori, le radici della formazione politico-culturale di Marco Pannella ci
conducono su un terreno originale e non consueto. Marco era un liberale, e la
contaminazione del suo liberalismo originario con motivi propri della destra
azionista lo portò da un lato ad apprezzare il contributo dato dalla destra
storica alla nascita del Paese e, dall’altro, in contraddizione apparente con
questa sensibilità, a sviluppare una visione più liberista che crociana in
ambito economico.
Non si comprenderebbe Pannella,
però, senza considerare l’influenza della nuova sinistra americana sul modo di
fare politica prima ancora che sul terreno ideale. Provengono da Oltreoceano la
non violenza, l’utilizzo del corpo come strumento di comunicazione e di lotta
politica, la predilezione per azioni minoritarie che potessero conquistare la
maggioranza agendo fuori dal palazzo e, anzi, in opposizione ad esso.
Il Partito Radicale di Pannella,
a differenza di quello di Pannunzio, Scalfari e di quelli che con loro andavano
la sera in via Veneto, fu un fenomeno post sessantottino.
Direi che fu il liberalismo possibile dopo quella stagione che, soprattutto in
ambito giovanile, sconvolse il mondo. Fu il Sessantotto liberale e libertario
che non involse in gruppetti settari e iperideologici.
«Tu sei un rivoluzionario»
scriveva Pannella ad Andrea Valcarenghi nella prefazione di
«Underground a pugno chiuso», «Io amo invece gli obiettori, i fuorilegge del
matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della
primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli
omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo
e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo;
ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i
canti anarchici e il pensiero della Destra storica».
Proprio per queste ragioni,
negli anni Settanta il Partito Radicale svolse un ruolo fondamentale nella
sociabilità e nella formazione politica dei giovani di quel decennio. Il mio
stesso percorso ne è una testimonianza. Studiavo in un liceo che ospitava tutte
le formazioni dell’estrema sinistra, la Federazione giovanile
comunista-italiana e un solo fascista. Quel gruppetto di radicali era un’ancora
di salvezza per chi voleva sfuggire alle droghe delle ideologie novecentesche.
Anche quando poi si prendeva distacco da quell’esperienza, come a me accadde a
22 anni dopo essere stato vicesegretario nazionale proprio di Marco, essa
restava un punto di riferimento, prezioso pure per concepire idee differenti e
a volte addirittura antitetiche o antagoniste.
Oggi di luoghi di
formazione, in fondo gratuiti e generosi, come quello che fu il Partito
Radicale di Pannella, non ne esistono più. E questa è una perdita secca
che condiziona la qualità della classe politica e quindi la ricchezza stessa
della Nazione.
Fu quello il periodo d’oro
del Partito Radicale e del suo leader.
Negli anni della cosiddetta
Prima Repubblica le sue battaglie e lo strumento del referendum,
del quale in seguito si sarebbe abusato, sconvolsero un sistema politico allora
sclerotizzato intorno al bipartitismo imperfetto interpretato da due
partiti-chiesa. Quando, nel 1976, i radicali entrarono in Parlamento, essi
furono la prima formazione veramente nuova a riuscirci. Le grandi vittorie, dal
divorzio fino alla battaglia su Enzo Tortora, appartengono tutte a questo
periodo storico.
Non è difficile comprendere
perché, con l’inaugurarsi della cosiddetta seconda Repubblica, la vicenda
politica e umana di Pannella, pur continuando a interpretare una
testimonianza in alcuni casi al limite dell’eroismo, perde peso e incidenza
politica. Il problema è che quella dinamica bipolare che nel corso della prima
fase della Repubblica Pannella era riuscito a imporre sulle sue
battaglie, tagliando trasversalmente la politica ufficiale e spiazzandola,
battendosi per una legittimazione reciproca e generale che lo portò ad essere
il primo leader a prendere parte a un congresso del Movimento
Sociale Italiano di Almirante, e contrastando fino in fondo qualsiasi tipo di
reato di opinione, a partire dal 1994 diventa la regola di funzionamento del
sistema. In qualche modo, il bipolarismo si secolarizza. E la stessa cultura
dei diritti civili cessa progressivamente di identificarsi con la difesa di una
minoranza per diventare cultura di massa.
Lo aveva compreso in modo
mirabile uno che a Pannella voleva bene e che negli anni Settanta gli
aveva dedicato due bellissimi articoli da antologia: mi riferisco a Pier Paolo
Pasolini, il quale, nell’intervento preparato per un Congresso radicale e letto
postumo dopo il suo brutale assassinio a Ostia, rivolgendosi a Marco e a
Gianfranco Spadaccia (che ha onorato le Aule del Senato e che vedo oggi in
tribuna e saluto), li implorava di restare irriconoscibili, per evitare che i
diritti civili diventassero l’ideologia ufficiale dell’edonismo di massa e, per
quella via, si facessero conformismo.
Pannella quel rischio
non l’ha corso, ma non ha potuto evitare – e probabilmente non l’ha mai neanche
voluto – che il Partito Radicale di massa, come aveva capito Augusto Del Noce,
nascesse altrove.
In questa fase dell’attività
di Marco non mancano le intuizioni folgoranti, come la comprensione che la
globalizzazione avrebbe spostato le frontiere della lotta politica e che
l’Europa, al di fuori dell’orizzonte fissato da De Gasperi e Spinelli, avrebbe
rischiato l’implosione. Tuttavia, se si guarda alla vicenda del Partito
Radicale transnazionale e al tentativo di riformare il diritto internazionale,
ci si rende conto di come un uomo politico che fin lì si era rifiutato di
concepire la politica come gestione dell’esistente per provare a determinare il
possibile attraverso la politica, fosse finito un po’ fuorigioco, immaginando
la politica come creazione dell’impossibile.
Per questo il suo percorso
negli ultimi anni si avvicina a una dimensione più laicamente religiosa che
immediatamente politica: il rapporto con il Dalai Lama e la stessa lettera
scritta a Papa Francesco prima di morire ne sono testimonianza.
Tuttavia, oltre il percorso
esemplare, resta qualcosa di urgente su cui riflettere al di là dei tributi di
maniera. Si tratta di qualcosa che unifica la prima e la seconda fase del Pannella politico:
sono l’acribia e il rigore, da destra storica appunto, con cui ha sempre
insistito per il rispetto delle regole. Da qui l’attenzione alla qualità della
legislazione come presupposto dello Stato di diritto e nutrimento del
garantismo; da qui, come già detto, l’avversione nei confronti della
criminalizzazione di qualsiasi opinione e nei confronti di qualsiasi reato di
opinione; da qui, infine, la comprensione che nelle moderne società politiche
la pienezza del diritto all’informazione, l’accesso ai mezzi di comunicazione e
la possibilità per tutti di esporre adeguatamente le proprie idee, sono
essenziali affinché una democrazia possa dirsi effettivamente liberale senza
correre il rischio di diventare mera sovrastruttura.
Queste intuizioni, esposte
in maniera a volte prolissa, insistita, provocatoria, ricorrendo a un lessico
originale e disordinato, attingendo parole nuove da quel canestro di cui ha
detto De Gregori, restano materia viva sulla quale, oltre il tempo delle
commemorazioni e oltre le appartenenze ideali che in quest’Assemblea ci
dividono, bisognerebbe riflettere per onorare la sua memoria, la memoria di
Marco Pannella
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