L’emergenza
coronavirus, per la portata delle sue implicazioni politiche, economiche e
sociali, oltre a quelle immediate di salute pubblica, rappresenta forse il test
più difficile degli Anni Duemila per l’Unione europea, ancora di più della
crisi economica e finanziaria del 2008 e della cosiddetta crisi migratoria del
2015-2016.
A questa emergenza l’Unione ha dato una risposta che è
apparsa insufficiente e tardiva e che è stata sfavorevolmente contrapposta a
quella della Cina, dove l’emergenza si è prodotta e che sembra oggi
essere uscita dalla fase acuta dell’epidemia.
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Ciò ha senz’altro contribuito ad alimentare le critiche
verso il modello europeo. Nel dibattito pubblico e sui social media sono
riemerse invocazioni alla riappropriazione delle competenze a livello
nazionale, e inviti a guardare a Pechino come esempio alternativo di gestione
della crisi.
Ma pensare di reagire ad una pandemia
globale con misure di tipo esclusivamente nazionale è di per sé
assurdo: il virus non conosce confini e soltanto un’azione coordinata di tipo
transnazionale sembra in grado di limitare la sua diffusione.
Dall’altra parte, il modello cinese non può essere un’alternativa
valida, sotto diversi aspetti. La centralizzazione della risposta, il controllo
capillare e la manipolazione dell’informazione pubblica attraverso i media di
Stato e la raccolta estensiva dei dati dei cittadini per limitare spostamenti e
contagi sono strumenti tipici di un regime autocratico e implicano la negazione
di libertà e diritti individuali che sono invece il fondamento primario delle
società europee.
Siamo di fronte a un fenomeno multidimensionale, che chiama
in causa almeno tre elementi: la risposta fattuale all’emergenza sanitaria, una
corretta informazione, il contenimento delle conseguenze economiche e sociali.
La competenza in materia di salute
Per quanto riguarda la risposta all’emergenza, occorre
sottolineare che gli Stati membri hanno competenza esclusiva per quanto
riguarda la definizione delle politiche nazionali in materia di salute, inclusa
l’organizzazione e la fornitura dei servizi sanitari. L’Unione ha soltanto un
ruolo di completamento delle politiche nazionali, che comprende la lotta contro
i cosiddetti “grandi flagelli” (sulla base dell’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea).
A partire da questa base legale, un’azione più coordinata
avrebbe potuto e dovuto essere stata promossa da Bruxelles e in particolare dai
ministri della salute dei 27 Stati membri riuniti nel Consiglio Occupazione,
politica sociale, salute e consumatori (Epsco).
Inoltre, il Trattato di Lisbona ha introdotto la
cosiddetta “clausola di solidarietà” (articolo 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea),
secondo la quale l’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente qualora
uno di questi ultimi sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di
una calamità naturale o provocata dall’uomo.
Questa clausola avrebbe potuto essere stata attivata
dall’Italia attraverso una notifica contestuale alla Commissione europea e alla
Presidenza di turno dell’Unione. A quel punto, la responsabilità primaria
sarebbe stata della Commissione e dell’Alto rappresentante, che sarebbero
dovuti intervenire individuando gli strumenti più appropriati per reagire alla
crisi a livello europeo, anche attraverso il Fondo europeo di solidarietà.
Invece non ha funzionato al meglio il Meccanismo di
protezione civile dell’Unione attivato dall’Italia a fine febbraio per chiedere
agli Stati membri la fornitura di mascherine e dispositivi medici
protettivi. Come denunciato dallo stesso rappresentante permanente
dell’Italia a Bruxelles Maurizio Massari, nessun Paese ha risposto all’appello.
Soltanto domenica è arrivata la notizia, positiva ma tardiva, dello sblocco di
forniture di mascherine e altro materiale sanitario da Francia e
Germania, reso noto dal commissario al Mercato interno Thierry Breton.
Una comunicazione confusa
E questo ci porta al piano comunicativo, che sembra
riflettere la confusione e la reticenza all’azione coordinata a livello
europeo. L’Unione avrebbe potuto fare decisamente meglio per rassicurare i suoi
cittadini e mostrarsi reattiva e coesa, all’altezza delle ambizioni di
“un’Europa che protegge”, come scritto nei documenti strategici e come
sbandierato dai leader europei. Soprattutto in questi frangenti di crisi,
quando la responsabilità sociale dei singoli può fare la differenza, è
importante veicolare messaggi chiari e non contraddittori e allo stesso tempo
far sentire la presenza delle istituzioni per rafforzare la fiducia tra la
popolazione.
Se la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha lanciato, l’11 marzo, un
accorato seppur tardivo messaggio di vicinanza all’Italia, il Paese più
duramente colpito fino a questo momento in Europa, il giorno successivo la presidente
della Banca centrale europea Christine Lagarde ha rilasciato un’improvvida dichiarazione che ha fatto
schizzare lo spread italiano e ha generato la reazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Solo dopo sono arrivate le precisazioni di Lagarde e la
rassicurazione di von der Leyen che l’Unione avrebbe fatto “whatever is
necessary” per aiutare Stati membri e cittadini.
Misure economiche e sociali
Ci sono poi gli interventi legati all’impatto economico e
sociale dell’emergenza. Le misure che hanno imposto il blocco della libera circolazione
nel mercato unico e lo stop alle attività commerciali e produttive in alcuni
Paesi europei, tra cui l’Italia, rischiano di avere conseguenze disastrose
sull’economia europea e richiedono misure forti di sostegno.
In questi giorni sono arrivate buone notizie da Bruxelles,
come la luce verde per gli Stati membri a tutta la spesa necessaria per
interventi in ambito sanitario, sociale, di sostegno al lavoro e all’economia
sulla base della clausola sugli eventi eccezionali.
Via libera anche per gli aiuti di Stato per quelle aziende
che hanno crisi di liquidità e hanno bisogno di supporto urgente, come ad
esempio quelle nei settori del trasporto aereo e del turismo. Nelle prossime
settimane, 1 miliardo del bilancio europeo sarà destinato a garanzia del
Fondo europeo per gli investimenti, al fine di incentivare le banche a fornire
liquidità per almeno 8 miliardi di euro alle piccole e medie imprese in
difficoltà.
Si attende anche un’accelerazione per il lancio di uno
Schema europeo di sussidi di disoccupazione, l’impiego di 37 miliardi del Fondo
di coesione per far fronte all’emergenza e l’espansione del Fondo europeo di
solidarietà.
Questo balzo in avanti, dovuto anche a un’azione diplomatica
incisiva del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e del lavoro politico del
commissario Paolo Gentiloni, va sicuramente accolto con favore, anche perché
potrebbe cambiare in maniera sostanziale il paradigma europeo in materia
economica e finanziaria in una direzione più volte auspicata dall’Italia
stessa.
Quello che manca è ora un grande piano di investimenti
pubblici che riguardi il settore sanitario ma anche tutti quei settori che
risulteranno maggiormente colpiti dalla crisi, dal welfare alle infrastrutture
all’istruzione. Ci si augura insomma che questa emergenza convinca tutti della
necessità di dotare l’Unione degli strumenti finanziari e politici necessari a
far fronte alle sfide congiunturali e strutturali. E questo dovrebbe
riflettersi anche nelle dimensioni e nelle priorità del prossimo ciclo di bilancio pluriennale 2021-27.
Il coronavirus avrà conseguenze che nessuno è ancora in
grado di valutare appieno, ma quello che l’Unione non può permettersi è
senz’altro di trasformarla nell’ennesima occasione persa per far sentire ai
cittadini la vicinanza e l’utilità delle istituzioni, con le parole e con i
fatti.
(Questo post è stato pubblicato su Affari Internazionali)
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