lunedì 16 marzo 2020

Un vaccino per l’Europa politica



L’emergenza coronavirus, per la portata delle sue implicazioni politiche, economiche e sociali, oltre a quelle immediate di salute pubblica, rappresenta forse il test più difficile degli Anni Duemila per l’Unione europea, ancora di più della crisi economica e finanziaria del 2008 e della cosiddetta crisi migratoria del 2015-2016.
A questa emergenza l’Unione ha dato una risposta che è apparsa insufficiente e tardiva e che è stata sfavorevolmente contrapposta a quella della Cina, dove l’emergenza si è prodotta e che sembra oggi essere uscita dalla fase acuta dell’epidemia.
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Ciò ha senz’altro contribuito ad alimentare le critiche verso il modello europeo. Nel dibattito pubblico e sui social media sono riemerse invocazioni alla riappropriazione delle competenze a livello nazionale, e inviti a guardare a Pechino come esempio alternativo di gestione della crisi.
Ma pensare di reagire ad una pandemia globale con misure di tipo esclusivamente nazionale è di per sé assurdo: il virus non conosce confini e soltanto un’azione coordinata di tipo transnazionale sembra in grado di limitare la sua diffusione.
Dall’altra parte, il modello cinese non può essere un’alternativa valida, sotto diversi aspetti. La centralizzazione della risposta, il controllo capillare e la manipolazione dell’informazione pubblica attraverso i media di Stato e la raccolta estensiva dei dati dei cittadini per limitare spostamenti e contagi sono strumenti tipici di un regime autocratico e implicano la negazione di libertà e diritti individuali che sono invece il fondamento primario delle società europee.
Siamo di fronte a un fenomeno multidimensionale, che chiama in causa almeno tre elementi: la risposta fattuale all’emergenza sanitaria, una corretta informazione, il contenimento delle conseguenze economiche e sociali.
La competenza in materia di salute
Per quanto riguarda la risposta all’emergenza, occorre sottolineare che gli Stati membri hanno competenza esclusiva per quanto riguarda la definizione delle politiche nazionali in materia di salute, inclusa l’organizzazione e la fornitura dei servizi sanitari. L’Unione ha soltanto un ruolo di completamento delle politiche nazionali, che comprende la lotta contro i cosiddetti “grandi flagelli” (sulla base dell’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea).
A partire da questa base legale, un’azione più coordinata avrebbe potuto e dovuto essere stata promossa da Bruxelles e in particolare dai ministri della salute dei 27 Stati membri riuniti nel Consiglio Occupazione, politica sociale, salute e consumatori (Epsco).
Inoltre, il Trattato di Lisbona ha introdotto la cosiddetta “clausola di solidarietà” (articolo 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), secondo la quale l’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente qualora uno di questi ultimi sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo.
Questa clausola avrebbe potuto essere stata attivata dall’Italia attraverso una notifica contestuale alla Commissione europea e alla Presidenza di turno dell’Unione. A quel punto, la responsabilità primaria sarebbe stata della Commissione e dell’Alto rappresentante, che sarebbero dovuti intervenire individuando gli strumenti più appropriati per reagire alla crisi a livello europeo, anche attraverso il Fondo europeo di solidarietà.
Invece non ha funzionato al meglio il Meccanismo di protezione civile dell’Unione attivato dall’Italia a fine febbraio per chiedere agli Stati membri la fornitura di mascherine e dispositivi medici protettivi. Come denunciato dallo stesso rappresentante permanente dell’Italia a Bruxelles Maurizio Massari, nessun Paese ha risposto all’appello. Soltanto domenica è arrivata la notizia, positiva ma tardiva, dello sblocco di forniture di mascherine e altro materiale sanitario da Francia e Germania, reso noto dal commissario al Mercato interno Thierry Breton.
Una comunicazione confusa
E questo ci porta al piano comunicativo, che sembra riflettere la confusione e la reticenza all’azione coordinata a livello europeo. L’Unione avrebbe potuto fare decisamente meglio per rassicurare i suoi cittadini e mostrarsi reattiva e coesa, all’altezza delle ambizioni di “un’Europa che protegge”, come scritto nei documenti strategici e come sbandierato dai leader europei. Soprattutto in questi frangenti di crisi, quando la responsabilità sociale dei singoli può fare la differenza, è importante veicolare messaggi chiari e non contraddittori e allo stesso tempo far sentire la presenza delle istituzioni per rafforzare la fiducia tra la popolazione.
Se la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha lanciato, l’11 marzo, un accorato seppur tardivo messaggio di vicinanza all’Italia, il Paese più duramente colpito fino a questo momento in Europa, il giorno successivo la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha rilasciato un’improvvida dichiarazione che ha fatto schizzare lo spread italiano e ha generato la reazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Solo dopo sono arrivate le precisazioni di Lagarde e la rassicurazione di von der Leyen che l’Unione avrebbe fatto “whatever is necessary” per aiutare Stati membri e cittadini.
Misure economiche e sociali
Ci sono poi gli interventi legati all’impatto economico e sociale dell’emergenza. Le misure che hanno imposto il blocco della libera circolazione nel mercato unico e lo stop alle attività commerciali e produttive in alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, rischiano di avere conseguenze disastrose sull’economia europea e richiedono misure forti di sostegno.
In questi giorni sono arrivate buone notizie da Bruxelles, come la luce verde per gli Stati membri a tutta la spesa necessaria per interventi in ambito sanitario, sociale, di sostegno al lavoro e all’economia sulla base della clausola sugli eventi eccezionali.
Via libera anche per gli aiuti di Stato per quelle aziende che hanno crisi di liquidità e hanno bisogno di supporto urgente, come ad esempio quelle nei settori del trasporto aereo e del turismo. Nelle prossime settimane, 1 miliardo del bilancio europeo sarà destinato a garanzia del Fondo europeo per gli investimenti, al fine di incentivare le banche a fornire liquidità per almeno 8 miliardi di euro alle piccole e medie imprese in difficoltà.
Si attende anche un’accelerazione per il lancio di uno Schema europeo di sussidi di disoccupazione, l’impiego di 37 miliardi del Fondo di coesione per far fronte all’emergenza e l’espansione del Fondo europeo di solidarietà.
Questo balzo in avanti, dovuto anche a un’azione diplomatica incisiva del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e del lavoro politico del commissario Paolo Gentiloni, va sicuramente accolto con favore, anche perché potrebbe cambiare in maniera sostanziale il paradigma europeo in materia economica e finanziaria in una direzione più volte auspicata dall’Italia stessa.
Quello che manca è ora un grande piano di investimenti pubblici che riguardi il settore sanitario ma anche tutti quei settori che risulteranno maggiormente colpiti dalla crisi, dal welfare alle infrastrutture all’istruzione. Ci si augura insomma che questa emergenza convinca tutti della necessità di dotare l’Unione degli strumenti finanziari e politici necessari a far fronte alle sfide congiunturali e strutturali. E questo dovrebbe riflettersi anche nelle dimensioni e nelle priorità del prossimo ciclo di bilancio pluriennale 2021-27.
Il coronavirus avrà conseguenze che nessuno è ancora in grado di valutare appieno, ma quello che l’Unione non può permettersi è senz’altro di trasformarla nell’ennesima occasione persa per far sentire ai cittadini la vicinanza e l’utilità delle istituzioni, con le parole e con i fatti.
(Questo post è stato pubblicato su Affari Internazionali)


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